Utilizzerò tre parole della lingua inglese (Wow, Boom e Shock) per parlarvi di tre strumenti chirurgici presenti nel Museo del Ceppo (Pistoia)((Questo testo è la trascrizione parziale della Conferenza tenuta il 12 maggio 2023 al Museo del Ceppo nell’ambito della rassegna “Primavera al Museo” organizzata dai Musei Civici di Pistoia e dal Comune di Pistoia)). La genesi di questi tre strumenti avvenne in quel XVII secolo che ha visto l’Inghilterra e la stessa Europa diventare sempre più importanti sullo scacchiere internazionale.
“WOW”
La prima di queste parole è l’interiezione WOW. La sua origine scozzese esprime – così oggi come allora – meraviglia e stupore. Il suo utilizzo nella lingua compare a partire dai primi anni del 1500 d.C. Uno dei primi testi dove essa è presente è infatti l’Eneide di Gavin Douglas del 1513. Successivamente troveremo la parola “WOW” in un sermone (Red-Shankes Sermon) del Reverendo James Row, datato 1638. Da allora in poi il suo utilizzo sarà sempre più diffuso e numerose saranno le sue citazioni.
La Prima Rivoluzione dell’Età Moderna
Indubbiamente questi sono anni estremamente interessanti per questa porzione di mondo. E osservarli dal punto di vista della Scozia è particolarmente stimolante. Infatti, proprio in questa prima metà del XVII secolo, avverrà nella vicina Inghilterra la prima rivoluzione dell’Età Moderna.
Qui, infatti, matura la prima rivoluzione moderna e questa avviene contro la dinastia degli Stuart, la casata che era succeduta ai potenti Tudor. I motivi dello scoppio saranno sono molteplici. Tuttavia, fra i più sentiti dai rivoluzionari vi è la richiesta di limitare il potere del sovrano (sottomettendolo alla common law) e di ridare centralità al Parlamento. Un ente politico che viene sempre più visto come unico e vero interprete della volontà popolare. Un ente il cui rapporto con il re era tuttavia andato sempre più deteriorandosi, si pensi solo che Carlo I Stuart non lo convocherà per oltre dieci anni.
Gli antiassolutisti accuseranno la corona di imporre in modo intransigente la religione dell’Anglicanesimo a tutta la nazione e di entrare in modo invadente nell’economia del paese. Si assisterà ad un autentico urto sociale: da una parte avremo la borghesia agricola e urbana, la gentry e i ceti popolari, dall’altra la corona, l’alta nobiltà, il clero e alcuni grandi capitalisti.
Cavalieri contro Teste Rotonde
Lo scoppio di una rivolta in Scozia farà sì che anche il popolo di Londra si ribelli contro il sovrano. Carlo I in fuga dalla capitale del regno, cercherà di raggruppare il proprio esercito fuori da essa. È guerra civile in tutto il paese. Da una parte vi saranno i sostenitori armati del re (detti “cavalieri”) dall’altra i sostenitori del Parlamento, le celebri “teste rotonde”. Quest’ultime guidate da un raffinato stratega militare e grande artefice politico quale Oliver Cromwell, otterranno una serie di vittorie che porteranno alla disfatta l’esercito reale. Il 30 gennaio 1649, i rivoluzionari processeranno lo sconfitto Carlo I mettendolo a morte davanti al Palazzo Reale.
La Battaglia di Edgehill
Ora se facciamo una ricerca online riguardo la prima rivoluzione inglese capita spesso di imbattersi in questa immagine. Da una parte abbiamo due ragazzi che guardano sullo sfondo la battaglia (con lo sparo dei primi cannoni terrestri), mentre in primo piano abbiamo un adulto intento a sorvegliarli e a leggere al contempo un libro.
Ebbene questo quadro rappresenta vividamente un dettaglio della Battaglia di Edgehill avvenuta domenica 23 ottobre 1642 vicino a Kineton (Warwickshire). In questo combattimento, avvenuto per caso, visto che i due eserciti non aspettavano di incontrarsi, si scontreranno 12.500 truppe realiste (e 16 cannoni) contro 15.000 parlamentaristi (e 7 cannoni) guidati da Earl of Essex. Il conflitto, durerà dalle 2 alle 4 e 30 del pomeriggio e terminerà con un sostanziale nulla di fatto. Tuttavia,strategicamente avrà il compito di rallentare l’avanzata del re verso Londra, dove peraltro mai riuscirà a ritornare.
Due giovani ragazzi e un adulto
Ma chi sono i personaggi che vengono rappresentati in questo dipinto?
I due ragazzi raffigurati sono rispettivamente Charles e James i figli di 12 e 9 anni del sovrano Carlo I. Ovvero i giovani principi, coloro che sono in linea di diretta successione al trono, nel caso accada qualcosa al loro padre. L’uomo seduto in primo piano che invece legge un volume è William Harvey un eminente anatomista nonché medico personale dello stesso Carlo.
Per aver accudito e protetto i propri figli, Carlo I regalerà ad Harvey nel dicembre di quell’anno un quadro di William Dobson ritraente il figlio Charles vestito con i paramenti della guerra civile. Con in mano il bastone del comando e dall’altra un elmo, il giovane Charles guarda fiero lo spettatore, mentre in un angolo i colori di guerra dei parlamentaristi giacciono al suolo, in chiaro segno di sconfitta. Sconfitta che si vuole rappresentare dovuta alla superiorità della cavalleria reale, che dietro alle spalle del giovane Charles, William Dobson rappresenta combattere eroicamente.
Purtroppo, il quadro dipinto da William Dobson, non rappresenterà la realtà. Il re verrà infatti sconfitto in diverse battaglie da Oliver Cromwell ed infine giustiziato sette anni dopo davanti al Palazzo Reale. Tuttavia, il quadro verrà gelosamente conservato da William Harvey e dalla sua sua discendenza, tanto da essere venduto solo nel 1935 alla National Portrait Gallery of Scotland.
Chi era William Harvey?
Ma guardiamo più approfonditamente la vita di William Harvey. Due cose sono particolarmente importanti. La prima è che nel suo percorso di studi, Harvey ha studiato in Italia e più precisamente a Padova. La seconda che è stato allievo, proprio nella città veneta di un grande anatomista come Girolamo Fabrici d’Acquapendente.
Padova con la propria università (fondata nel 1222 d.C. da una “secessione” di studenti e docenti dell’Università di Bologna) e in particolare con la sua facoltà di medicina era al tempo uno dei luoghi di apprendimento migliori d’Europa. Qui, l’insegnamento anatomico veniva fatto attraverso la visione diretta e l’esperienza pratica, qui il sapere non si basava sull’ ipse dixit che molto spesso aveva caratterizzato l’educazione dei futuri medici.
A Padova si effettuavano – con metodo – le prime autopsie. Nella città universitaria veneta si osservava la complessità del corpo umano(al tempo inteso come riflesso della grandezza divina) dal vivo tanto che i teatri anatomici mobili (e montati nei mesi invernali quando il cadavere si conserva meglio) grazie proprio a Girolamo Fabrici d’Acquapendente diventeranno teatri anatomici stabili come il Grande Teatro Anatomico, una delle più belle strutture arrivate pressochè intatte a noi oggi.
Ed essere allievo di Girolamo Fabrici d’Acquapendente era un grande privilegio. Permise infatti ad William Harvey di studiare e approfondire il sistema sanguigno. Fabrici era stato infatti il primo a descrivere nel dettaglio le valvole a nido di rondine presenti nel sistema venoso sebbene poi abbia fornito una spiegazione poco esauriente del perchè della loro conformazione. Prima ancora di Fabrici, lo stesso Realdo Colombo nel De Re Anatomica aveva mostrato interesse per questo apparato, dimostrando sperimentalmente l’inesistenza di minuscoli fori nel setto interventricolare, cosa che invece veniva sostenuta dalla teoria della circolazione redatta da Galeno.
Circolazione: una nuova parola.
Queste due nozioni permetteranno a William Harvey di dimostrare come il sangue circoli all’interno dell’organismo in modo unidirezionale, di come la sua propulsione sia ad appannaggio del cuore e di come le valvole a nido di rondine impediscano un flusso retrogrado che potrebbe avvenire nelle braccia e nelle gambe a causa della gravità.
Harvey scopre quella che oggi noi conosciamo sotto il termine di “circolazione”. E dimostra il tutto nel celebre trattato De Motu Cordis del 1628 dove scrive:
“È necessario concludere che il sangue è in uno stato di incessante movimento; che questa è la funzione che il cuore svolge per mezzo del suo battito; e che questo è il solo ed unico fine del moto e della contrazione del cuore.”
William Harvey, De Motu Cordis, 1628
La scoperta della circolazione
La scoperta della circolazione umana è stato un evento sorprendente. Essa ha avuto un impatto dirompente sulla cultura medica. E ci vorranno secoli perchè venga recepita. Vi chiederete perché.
Ebbene vi basti pensare che prima di William Harvey, per oltre 1400 anni, il sangue era stato ritenuto un fluido che – ogni giorno – si esauriva nei tessuti e si rigenerava continuamente nei diversi organi deputati a produrlo. Con Harvey tutto questo non era più valido e cambiava. Il sangue presente nel nostro corpo diventava una quantità limitata che continuamente “circolava”. E quindi ancor più preziosa. Ogni sua perdita (emorragia) metteva a repentaglio la vita umana, ecco perchè doveva essere efficacemente subito contenuta e contrastata.
Il primo strumento chirurgico
E il tourniquet diverrà uno degli strumenti più adatti a questo scopo. Un bellissimo esemplare presente nel Museo del Ceppo, è il tourniquet di Petit-Lerroy datato XVIII secolo. Senza ora entrare nello specifico della storia del tourniquet ( la potete trovare nel testo La Borsa del Medico, Hoepli 2022) è importante sottolineare come esso altro non sia che un laccio emostatico di tipo asimmetrico. Ovvero un laccio che permette l’emostasi bloccando principalmente il flusso arterioso.
Il tourniquet di Petit presente al Museo del Ceppo di Pistoia, è l’evoluzione del tourniquet a blocco messo a punto dal chirurgo di guerra Etienne Morel. Il funzionamento di quest’ultimo è simile a quello della “garrota”, il macabro strumento di tortura di ispirazione spagnola. Infatti, nelle proprie pubblicazioni Etienne Morel userà per il suo strumento il termine di “garrot” in quanto un blocco (di legno) viene spinto a comprimere tessuti e vasi sanguigni.
Il tourniquet di Petit
Jean-Luis Petit aggiungerà al garrot di Morel un secondo blocco e un meccanismo di serraggio a vite, per questo motivo il chirurgo francese conierà per il proprio oggetto il termine di “tourniquet”, dal verbo francese tourner che significa “avvitare”. Infatti bisogna girare un meccanismo a vite per poterlo serrare.
Lo strumento da lui messo a punto presentava due indubbi vantaggi:
- poteva essere applicato autonomamente dal soggetto ferito.
- poteva essere rilasciato e riapplicato rapidamente.
Ancora oggi il tourniquet si rivela per queste caratteristiche uno strumento fondamentale per contrastare le emorragie acute sia in fase preospedaliera che durante un intervento stesso. Esso è infatti presente nella dotazione personale di ogni militare impiegato sul campo e anche in ambito civile si stanno facendo numerosi progressi per la sua diffusione. Saper applicare un laccio emostatico in modo corretto permette infatti di “aumentare la “sopravvivenza del paziente” e di diminuire la “necessità di trasfusioni di sangue“.((Henry, Reynold MD at Al, Increased Use of Prehospital Tourniquet and Patient Survival: Los Angeles Countywide Study, Journal of the American College of Surgeons, August 2021)). Dettagli questi non da poco.
“BOOM”
La seconda parola di cui vi parlerò stasera è la parola “BOOM”. Se “WOW” aveva un’origine scozzese ed era collocabile etimologicamente agli inizi del XVI secolo, l’etimologia della parola BOOM è molto più antica tanto che era già in uso in epoca greca e latina. I latini usavano infatti il verbo bombus per esprimere un suono cupo, forte, profondo…ma anche ronzante. I bombi (in inglese bumblebees) sono infatti insetti che emettono questo particolare suono. Ciò avviene perchè i muscoli deputati al volo sono presenti all’interno del loro addome ed questo facendo da cassa di risonanza produce il loro famoso ronzio.
Ma il motivo per cui uso questa parola è che in Europa, in quel Seicento di cui abbiamo iniziato a parlare compare uno strumento di guerra che cambierà completamente la sorte di questo continente.
E questo strumento è il cannone.
Infatti, la parola “Boom” inizia a essere utilizzata nelle varie lingue europee (bombe in francese, bomba in italiano e spagnolo)per parlare specificatamente di armi da fuoco che proprio in quel periodo venivano perfezionate e ampiamente utilizzate dalle varie potenze europee spesso in conflitto fra loro.
E il luogo dove questo strumento verrà particolarmente impiegato è il mare. Infatti, si assiste in questo periodo ad uno sviluppo importante della marina in particolare britannica e olandese, che porterà poi le due potenze marinare ad espandersi e a confliggere inevitabilmente fra loro (conflitto anglo-olandese). E uno dei mari più trafficati e più pericolosi di quel tempo sarà proprio il “nostro” Mar Mediterraneo.
Il suono del cannone
Soffermiamoci ancora però sulla genesi del cannone. In quegli anni avverrà un progresso tecnico che farà sì che il cannone diventi un’arma estremamente diffusa fra le potenze europee. Questo progresso tecnico si chiamerà “fusione in unico pezzo” del ferro o ferro colato. Nei secoli precedenti questa innovazione in campo produttivo non era stata possibile. Per esempio, il cannone di grande calibro del XV secolo chiamato “Mad Meg” (esposto nella città di Gand) come potete vedere dalla forma non è un unico pezzo fuso bensì costituito da 32 barre longitudinali che vengono poi tenute insieme da 42 anelli di ferro. E questo lo rendeva particolarmente pesante (12.500 Kg!), fragile e piuttosto inefficiente.
La fusione del ferro
Uno dei luoghi dove questo progresso tecnico avverrà è la foresta di Ashdown, nel Weald del Sussex. Qui già ai tempi di Enrico VIII (Tudor) era stata avviata la produzione di armi da fuoco in ferro fuso. Tuttavia, siccome il re al tempo ammirava i pregevoli cannoni in bronzo (prodotti nei Paesi Bassi meridionali), la produzione di Ashdown era rimasta pressochè minoritaria e poco considerata dalla corona. Sarà tuttavia l’imminenza della guerra con la Francia e il costo esorbitante del bronzo a far sì che la produzione di più economici cannoni in ferro riacquistasse interesse.
Nel 1543, venne chiamato ad Ashdown, l’artigiano Peter Baude il miglior fonditore di cannoni del regno e il metallurgo Ralph Hogge uno dei migliori tecnici di fornace e metallurgia presenti in Inghilterra. Il risultato finale del loro sapere sarà la produzione di cannoni costituiti da un unico pezzo di ferro fuso. Il loro utilizzo sarà estremamente apprezzato non solo dalla corona ma anche dal mercato estero tanto che pochi anni dopo, nel 1573, le fornaci attive nel Sussex saranno ben otto e una ulteriore verrà attivata anche nel Kent.
Ora il cannone in ferro fuso in un unico pezzpo era per prestazioni inferiore a quello in bronzo. Capitava che scoppiava più facilmente, lo spessore della sua canna era molto più spessa e per questo risultava anche essere estremamente pesante. Tuttavia, il suo costo era dalle quattro alle cinque volte inferiore rispetto a quelli della famosa lega di stagno e rame. E per una nazione che si espandeva via mare, che faceva della pirateria parte della sua politica estera e che metteva il commercio al primo posto, questo era più che sufficiente. Anche perché come ho scritto in precedenza questi cannoni venivano utilizzati in gran parte sulle navi.
Cannoni e vele
Un altro cambiamento che, come abbiamo anticipato, si è rivelato decisivo per lo sviluppo dell’ Inghilterra come potenza marittima è stato quello della sua marineria. Non solo si è passati da una guerra navale fatta di balestrieri, abbordaggi e speronamenti ad una fatta essenzialmente di cannoneggiamenti a distanza ma anche dall’energia umana (prodotta dai remi) a quella della natura, ingabbiata in un più complesso sistema di vele.
Questo progresso che fu empirico e richiese diversi secoli, nel XVII secolo porterà ad un nuovo tipo di imbarcazione adatta a solcare le impetuose acque dell’ Oceano e a conquistare nuovi territori lontani.
Le nuove navi avranno:
- un timone unico posteriore unico (non più timoni doppi laterali)
- una velatura aumentata e di aumentata complessità
- un maggior numero di alberi (vi saranno due o tre alberi come l’albero di trinchetto, l’albero maestro e l’albero di mezzana)
- la presenza di artiglieria a bordo (vi sarà un ponte dedicato, il ponte di batteria con aperture sul fianco dello scafo dette portelli di fuoco)
- la murata delle navi sarà aumentata per resistere ai frequenti e intensi marosi oceanici.
Le navi inglesi e olandesi erano navi che potevano solcare l’Oceano per molti giorni resistendo ad intensi marosi, potete quindi capire come queste imbarcazione fossero ben diverse da quelle presenti nel mediterraneo che avevano un numeroso equipaggio, imbarcano un piccolo esercito, navigano lungo costa e necessitavano di scali frequenti. Se visivamente dovessimo immaginarci una di queste navi, la Mayflower che trasportava i 104 pelligrini puritani nel New England((Il viaggio della Mayflower durerà 2 mesi. Dei 104 pellegrini imbarcati, 40 moriranno per le conseguenze dello scorbuto una volta arrivati nel Nord America.)) è un ottimo esempio di imbarcazione di quel periodo.
Livorno, il porto inglese.
Ebbene nel Mediterraneo gli Inglesi per i propri commerci((Gli inglesi portano stagno, piombo,pesce salato (aringhe,saracche), panni-lana nonchè merci per conto terzi. Caricheranno a Livorno, seta grezza o filata, spezie dell’Oriente, uva passa, vino campano, malvasia greca, olio di Djerba e olio di Puglia)) sceglieranno il porto di Livorno. Il primo dei motivi era che Livorno per la corona inglese era un porto geopoliticamente perfetto. Esso non era legato al Regno di Francia come lo era Marsiglia, né con l’Impero Spagnolo come lo era Napoli, ne era legato a doppio filo con quest’ultima potenza, come lo era la Repubblica Indipendente di Genova. Inoltre la politica lungimirante del Granducato di Toscana aveva fatto sì che costasse meno scaricare a Livorno che non a Venezia sebbene geograficamente la Serenissima fosse un approdo migliore.
Si pensi solo che nel 1644 , il diarista britannico John Evelyn scriverà:
Livorno è il più importante porto nel territorio dei Duchi. Fino a poco tempo fa era un centro del tutto ignorato ma da quando Ferdinando lo ha pesantemente fortificato (secondo criteri moderni), ha prosciugato le paludi scavando quel canale navigabile per sedici miglia che conduce a Pisa ed ha costruito un molo emulando quello di Genova per dare sicurezza alle navi, Livorno è divenuto un porto di incredibile attività e capacità.
John Evelyn, 21 luglio 1644
Livorno, porto franco.
Il secondo motivo era che Livorno era un porto franco. Ovvero chi vi operava aveva il “benefitio” di deposito gratuito per un anno delle merci la cui destinazione finale superava le 100 miglia dalla città. Negli anni successivi questi termini cambieranno più volte per rendere sempre più attrattivo il porto fino a che nel 1629 verranno aboliti tempo di deposito e distanza di destinazione.
Il terzo motivo era che Livorno era uno scalo in grado di operare al pari di un grande porto come Genova o Venezia. Questo si ebbe grazie ad una politica sociale che seppe richiamare manovalanze da ogni parte del Mediterraneo. L’editto del granduca di Toscana definito “Prima Livornina” (1° luglio 1591) invitava infatti qualsiasi marinaio, manovalanza o mercante a “venire, stare e trafficare […] senza impedimento o molestia alcuna reale o personale”. Questo valeva per tutti, compresi i non cristiani come ebrei o turchi.
Si pensi solo che gli abitanti di Livorno erano dispendati dal pagamento delle gabelle, avevano i debiti cancellati, le pene corporali esonerate e un salvacondotto per i delitti commessi in precedenza salvo alcuni come l’eresia, la lesa maestà e la falsa moneta.
Il lazzareto di Livorno
Lo sviluppo di Livorno porterà quindi a numerose opere di porto e di retroporto, come esplicato nella slide. Fra queste una delle più importanti sarà la costruzione del Lazzareto di San Rocco nel 1590 a cui si aggiungerà nel 1643 il Lazzareto di San Jacopo.
Il sistema dei lazzareti e delle misure per evitare il contagio della peste è stato uno dei sistemi di medicina preventiva più all’avanguardia del tempo. Esso nasce a partire dalle misure emergenziali messe in atto durante la peste del 1348-1351((Queste misure al tempo consistettero nel reclutamento di emergenza di numerosi medici, nell’isolamento dei contagiati, nell’eliminazione della sporcizia accumulata, nel seppellimento dei defunti per peste in speciali cimiteri)). Ora senza entrare nel dettaglio, una nave che si avvicinava al porto di Livorno (ma anche in qualsiasi altro porto italiano) doveva per essere ammessa allo scalo esibire un passaporto sanitario e sottostare a regole sanitarie particolarmente stringenti.
Il passaporto sanitario indicava cosa trasportasse la nave, dove avesse fatto scalo e quanti erano gli uomini su di essa imbarcati. A seconda di quanto dichiarato il Magistrato di Sanità (che nel caso di Livorno faceva riferimento direttamente al Granduca di Toscana) poteva decidere il numero di giorni di antipurga e un certo numero di giorni di lazzareto.
Antipurga e isolamento
L’antipurga era una misura particolarmente mal sopportata dagli equipaggi (in particolare inglesi) in quanto prevedeva l’ormeggio con doppia ancora per diversi giorni fuori dal porto con l’esposizione sopraccoperta di tutte le merci stivate. Un attività che andava sotto il termine di “sciorinio”. Questa misura esponeva tuttavia la nave all’attacco di navi nemiche, al rischio di fortunali e all’eventuale deterioramento della merce da commerciare. Una volta effettuati questi giorni di antipurga la nave poteva accedere al porto e qui merci e uomini erano condotti al lazzaretto dove trascorreranno un ulteriore periodo di isolamento (che poteva protarsi fino a 40 giorni). Terminate queste procedure si otteneva la “libera pratica” ovvero la possibilità di trasportare la merce liberamente sui mercati del Granducato o della penisola italiana.
La paura del Magistrato
Il Sistema dei Lazzaretti nella sua costituzione implicitamente ci comunica una cosa: la grande preoccupazione degli uomini del tempo per la peste. Essa infatti era il terrore dei Magistrati di Sanità i quali con queste misure cercavano di evitare o contenere le epidemie.
Le Magistrature Sanitarie avevano infatti un importante compito nella società del tempo. Non solo controllavano le merci e le persone che entravano in un porto nei lazzaretti ma avevano altre importantissime attività quali:
- aprire e chiudere le porte di una città.
- registrare i casi di morte e accertarne la causa attraverso una visita autoptica.
- controllare l’attività professionale dei medici e dei chirurghi.
- ispezionare le farmacie e sorvegliare la preparazione dei farmaci.
- controllare le condizioni igieniche in cui viveva la popolazione. Fra cui quelle delle macellerie, dei mercati alimentari, delle rivendite di pesce, delle risaie (luoghi ritenuti generatori di miasmi, delle case private, delle locande compresa la registrazione degli ospiti.
Ora se pensiamo all’ultimo punto di questo elenco capiamo come la loro attività fosse (dal punto di vista epidemiologico moderno) estremamente corretta e all’avanguardia, sebbene la teoria che li guidava sappiamo oggi essere sbagliata.
Peste: un morbo invisibile
Infatti la peste per gli uomini e ledonne del Seicento era causata da “invisibili atomi miasmatici estremamente appicicaticci” che in virtù di questa loro caratteristica potevano passare facilmente da oggetto a animale a persona e viceversa, facendo sì che in poche parole tutto potesse essere infetto e ben poche merci si potessero salvare dal contagio. Questo ben si spiega il caratteristico abito che indossava il medico della peste, ovvero una sorta di scafandro che gli impediva di venire a contatto con i suoi pazienti.Superfluo dire che siamo in un epoca che non conosce ancora il vero vettore della peste (pulci e topi) nè conosce l’origine batterica della stessa malattia. Vi si arriverà solo con nell’Ottocento con le grandi scoperte della microbiologia ma fino essa mieterà milioni di vittime.
La medicina al tempo della Peste
Parlare però del sistema dei lazzaretti mi permette di parlare seppur brevemente delle figure professionali deputate ufficialmente alla cura delle persone quali medici, speziali e chirurghi. Tuttavia queste figure non sono le uniche ad occuparsi di medicina possiamo dire che ad una medicina ufficiale spesso presente solo in ambito cittadino si affianca una medicina popolare fatta da ciarlatani, saltinbanchi, benandanti e streghe su cui purtroppo non posso soffermarmi. In questo dipinto di Nicolas de Larmessin intitolato “Personificazione della Medicina , della Chirurgia e della Farmacia” vediamo le tre figure di cui ho appena parlato e di come la figura del medico (posta su un gradino più in alto in quanto più importante)impartisca ordini a queste altre due figure professionali.
Gli ordini che nel dipinto escono dalla bocca del dottore come fulmini sono sei. Tre riguardano il farmacista, che deve:
- preparare lassativi
- preparare emetici
- preparare giuleppi (sostanze simili a sciroppi)
e tre riguardano il chirurgo che invece deve:
- eseguire clisteri
- eseguire salassi
- applicare ventose (per la coppettazione del sangue)
Il secondo strumento chirurgico
In obbedienza alla teoria umorale secondo la quale il “cavare sangue” permetteva di riequilibrare gli umori, il salasso era una pratica estremamente diffusa. E questo ci porta a due degli strumenti presenti all’ospedale del Ceppo che veniva utilizzati per salassero, ovvero le lancette e lo scarificatore che qui vediamo nella slide.
Nella bottega del chirurgo, solitamente il braccio del paziente veniva inciso con una lancetta o uno scarificatore e una determinata quantità di sangue (non poca, vista la capacità dei bacili da salasso) fuoriusciva dalle vene del braccio che poi veniva prontamente bendato . Questa pratica non di rado portava a quadri di shock (ipovolemico). Una parola che ancora non si conosce nel Seicento ma che ci permette di parlare del terzo e ultimo strumento di questa conferenza.
“SHOCK”
Ora perché lo shock è legato al terzo strumento di cui vorrei parlarvi? Ebbene perché gli anestetici generali quali etere e cloroformio saranno spesso imputati nell’Ottocento di quadri di “shock” e di morte improvvisa. Tuttavia, ho improntato questa conferenza parlando di un’altra epoca ovvero del Seicento inglese ed europeo e quindi terminerò accennandovi di una sostanza che in quegli anni verrà scoperta e utilizzata per la cura di alcune affezioni dolorose.
Prima di diventare anestetico
Il composto di cui vi parlo è infatti l’etere dietilico al tempo conosciuto con il termine di olio dolce di vetriolo((Il termine “vetriolo” era usato nel passato per indicare l’acido solforico. Etimologicamente il nome trova origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame di ferro quando cristallizzano. Si usavano questi solfati per produrre proprio l’acido suddetto)). A scoprire questo composto saranno due persone distinte. Nel 1540, il chimico tedesco Valerius Cordus distillerà l’etere (olio dolce di vetriolo) ne riporterà menzione nel “De Artificiosis Extractionibus” dove ne sottolineane l’uso come come espettorante e rimedio utile nei processi putrefattivi. Nello stesso periodo (la datazione varia dal 1525 al 1540) il medico Paracelso lo userà per via orale sulle galline notando come esse cadano addormentate dopo l’ingestione. Paracelso è anche il primo studioso a descriverne le proprietà soporifere dell’etere e ad a indicarne l’utilità nelle affezioni dolorose.
Come potete ben vedere l’utilizzo al tempo di questa sostanza viene fatta per ingestione o esternamente attraverso toccature. Bisognerà aspettare le ricerche di Lavoisier e successivamente Priestley sulla respirazione e su quella che al tempo verrà chiamata “medicina pneumatica” per far sì che l’etere dietilico venga inalato diventando l’anestetico che tutti conosciamo.
Il terzo strumento chirurgico
Il 30 marzo del 1842, il Dr. Crawford Long di Jefferson (Georgia) applicherà l’etere (su un fazzoletto) prima di condurre un intervento chirurgico. Tuttavia sarà William Green Morton il 16 ottobre 1846 nella sala operatoria del Massachussets General Hospital ad usare l’etere come anestetico inalatorio, pubblicando successivamente il resoconto scientifico. Attraverso un inalatore di sua ideazione indurrà l’anestesia prima che il chirurgo John Collins Warren inizi a rimuovere una imponente massa tumorale dal collo di un paziente. Queste due storie citate quasi in modo anedottico ci portano tuttavia al terzo strumento: la maschera per l’ inalazione dell’etere di Esmarch. Sarebbe bello potervi parlare approfonditamente del grande apporto degli anestetici generali alla medicina. Ma siamo in tempi e luoghi diversi. Posso dire che questa è tutta un’altra – estremamente avvicente – storia. Grazie a tutti/e.
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